Il caso First Brand: un fallimento inatteso e ricco di insidie

Di fronte al caso First Brands, ci si trova davanti a un fallimento che somma fragilità operative, leva finanziaria fuori bilancio e opacità contrattuale in un mix che lo rende diverso dai default “canonici” dell’ultimo decennio. Il percorso verso la bancarotta è iniziato in un contesto di crescita per acquisizioni finanziata a debito e si è aggravato con l’uso massivo di canali di trade finance e factoring, spesso strutturati al di fuori del bilancio. Il dossier di Chapter 11 depositato a fine settembre nel distretto Southern Texas indica passività potenziali tra 10 e 50 miliardi a fronte di attivi tra 1 e 10 miliardi, a fronte di 5,8 miliardi di leveraged loans “on-balance”. La dinamica più dirompente, però, emerge dalla gestione del capitale circolante: a fine 2024 risultavano 2,3 miliardi di crediti “factored” (oltre il 70% delle vendite annue) ceduti a finanziatori e 682 milioni di supply-chain finance “reverse factoring”, oltre a linee di inventory finance veicolate tramite SPV dedicati. Su questo terreno si innesta l’elemento chiave della crisi, ossia il sospetto di re-hypothecation dei medesimi flussi di cassa/crediti commerciali verso più finanziatori e la commistione di collateral tra diverse strutture. Non sorprende che, quando gli investitori dei nuovi prestiti hanno chiesto chiarimenti nel tentativo di rifinanziare per circa 6 miliardi l’intera pila debitoria, il tavolo si sia rovesciato in poche settimane: i prestiti da “par” sono crollati in area “teens”, i pagamenti verso taluni veicoli si sono interrotti a metà settembre e il tribunale ha dovuto approvare un DIP da oltre 1 miliardo per tenere in vita l’operatività, con il giudice Lopez che ha esplicitato preoccupazioni inusuali per l’entità e la struttura dell’indebitamento.

L’elenco dei soggetti coinvolti riflette l’ampiezza dell’ecosistema credito odierno. Sul fronte del finanziamento “visibile” compaiono i detentori di prestiti sindacati, inclusi numerosi CLO, con asset manager come PGIM, CIFC e Blackstone tra gli espositori storici. Nel credito privato e nel working capital compaiono specialisti di inventory e receivables finance: Evolution Credit Partners, AB CarVal, Aequum Capital e, soprattutto, Onset Financial, che rivendica 1,9 miliardi di esposizione e si professa primo fornitore di liquidità al gruppo dal 2017. Tra gli hedge fund multistrategy spiccano Millennium, con perdite stimate intorno a 100 milioni su linee inventory a breve termine, e UBS O’Connor, che in uno dei veicoli “opportunistic working capital” ha ammesso una concentrazione del 30% riconducibile a First Brands tra esposizioni dirette su fatture da pagare e indirette su crediti dei clienti del gruppo. Nella catena del trade finance assume centralità Point Bonita Capital, fondo di invoice finance con circa 3 miliardi di portafoglio, di cui 715 milioni in posizioni su crediti dovuti dai clienti di First Brands (Walmart, AutoZone e altri), verso il quale i flussi sono stati sospesi il 15 settembre; Jefferies, tramite Leucadia Asset Management, ne detiene 113 milioni di equity. Jefferies è anche la banca che per oltre un decennio ha arrangiato operazioni di debito per First Brands e ha guidato, fino allo stop di agosto, il tentativo di rifinanziamento da 6 miliardi, oltre ad aver erogato in passato forme di finanziamento collegate ai crediti commerciali del gruppo.

Se ci si chiede chi abbia perso più denaro e perché, la risposta risiede nell’intersezione tra priorità legali, struttura delle garanzie e punto di ingresso nel capitale creditorio. Al momento i colpi più pesanti riguardano gli espositori sul capitale circolante “off-balance” e i prestiti senior “visibili” comprati a prezzi pieni prima del crollo. La perdita è amplificata da tre fattori: la possibile duplicazione del collateral su più linee (che trasforma una garanzia “forte” in una coperta corta contesa in tribunale), l’arresto e l’azzeramento dei conti segregati relativi alle fatture cedute (confermato dalla corrispondenza in cui i consulenti del debitore ammettono di non sapere se 1,9 miliardi siano mai stati incassati e che i saldi segregati sono pari a zero) e l’effetto prezzo sui prestiti sindacati scesi a circa 15 centesimi, con i CLO che si ritrovano mark-to-market severi proprio sugli asset “eligibili” per mandato. Onset, per dimensione dell’esposizione, e UBS O’Connor, per concentrazione di portafoglio, appaiono tra i più colpiti nel perimetro private/working-capital; tra le banche d’investimento il danno su Jefferies è doppio, economico e reputazionale: oltre alla partecipazione indiretta a Point Bonita, si aggiunge il rischio di contestazioni per conflitti informativi e per l’aver continuato a spingere un rifinanziamento mentre il quadro del trade finance si rivelava opaco. Le perdite nei multistrategy come Millennium sono “discrete” ma emblematiche del rischio di controparte nelle linee inventory a rotazione rapida. I detentori nei CLO pagano il prezzo della priorità teorica che, in presenza di collateral contestato o evanescente, non si traduce in recuperi attesi.

All’estremo opposto, chi ha guadagnato ha fatto due cose difficili: vendere allo scoperto il debito con sufficiente preavviso e riuscire a tenere la posizione fino all’evento. Apollo e Diameter Capital risultano tra i pochi vincitori, avendo costruito short sul debito e monetizzato i profitti prima o in prossimità della bancarotta. È un risultato non banale perché shortare prestiti leveraged e strutture di trade finance è tecnicamente oneroso, richiede accesso a mercati secondari poco liquidi o a derivati su loan/receivables, e impone tolleranza al rischio di “squeeze” informativo. Il potenziale guadagno, in ogni caso, è marginale rispetto alla scala di AUM e non compensa l’ampiezza delle perdite diffuse nel resto dell’ecosistema.

Le ripercussioni sistemiche non vanno sopravvalutate in termini di rischio di crisi bancaria classica, ma vanno prese molto sul serio nel perimetro del credito non-bancario e delle interfacce tra mercati “on-balance” e “off-balance”. La prima conseguenza è regolatoria e di prassi: ci si può attendere un irrigidimento dei covenant su trade finance, factoring e inventory finance, con richieste di audit terzo e “control of proceeds” effettivo, divieti di re-pledge e tracciabilità obbligatoria dei flussi su conti segregati realmente ring-fenced. La seconda è di prezzo e di liquidità: il costo del capitale sul capitale circolante per gli emittenti sub-investment grade tenderà a salire e la disponibilità stessa delle linee si ridurrà, con effetto immediato sul fabbisogno di cassa e sulle catene di fornitura dei settori a basso margine come l’auto-parts. La terza è di contagio reputazionale e di funding per alcuni operatori chiave: fondi di trade finance e veicoli simil-Point Bonita potrebbero affrontare richieste di rimborso, gating o ristrutturazioni dei termini; i desk di collocamento high-yield/loan bookrunner più aggressivi vedranno gli investitori chiedere disclosure granulari su SPV e side letter, allungando tempi e alzando le fee richieste per assumere rischio di “hung deals”. La quarta incide sui CLO: non tanto in termini di solvibilità di sistema, quanto per l’aumento della dispersione di performance tra gestori e per l’inasprimento dei limiti interni su esposizioni a emittenti con ricorso massivo a working-capital “esternalizzato”. Infine, va considerato il rischio legale: se il tribunale dovesse accertare una duplicazione sistematica delle garanzie, ci sarà contenzioso prolungato su priorità e recuperi, con effetti di frozen capital e haircut più profondi del previsto; l’effetto dimostrativo potrebbe accelerare la rinegoziazione di dozzine di strutture simili nel mercato middle-market.

Nel complesso, First Brands non è solo un default “grande” in termini nominali; è un crash test per l’intera architettura che negli anni di tassi bassi ha spinto una quota crescente di PIL finanziario nel credito privato e nel finanziamento del capitale circolante via veicoli specialistici e contratti poco standardizzati. La lezione per il mercato è duplice. Per i creditori, la seniority è un concetto sostanziale solo se le garanzie sono uniche, controllate e verificate nella catena dei flussi; in assenza di ciò, la priorità si dissolve in tribunale. Per gli arranger, la linea tra banca che “origina e distribuisce” e investitore con interessi economici nei medesimi flussi è sottile: quando si oltrepassa, il rischio reputazionale diventa rischio economico. Per il sistema, infine, l’episodio suggerisce che la prossima stagione di credito non si misurerà tanto nel volume di default, quanto nella qualità della documentazione e nella trasparenza dei veicoli che hanno finanziato l’economia “dietro il bilancio”.